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L’ARTISTA DEL BRUTTO

(da: Creature del buio e del silenzio, puntoacapo 2012)

 

 

Per Robert Graves

 

 

 

 

«Assolutamente, mio caro Alfonso, devi imprimerti bene in mente questo precetto: così come il Bello, infinitamente raro, è una perla nel mare d’abominio del Brutto, così il vero artista deve conoscere più il Brutto del Bello. Sia, per così dire, l’Informe la nostra guida.»

Il Maestro si versò una seconda tazza di tè dalla teiera in falso argento inglese, portò alle labbra la tazzina a fiori Made in Hong Kong e ne trasse un rapido sorso; poi si alzò e andò al termosifone, sollevò la vecchia gondola in plastica che fungeva da precario lume e, con un gesto di solenne approvazione, recitò: «Acquistata al mercato dell’antiquariato il mese scorso: non è meravigliosa? Autentica, naturalmente: una vera gondola veneziana in plastica!»

«Non mi sembra molto ben fatta, però» mi inserii cauto, non sapendo dove conducesse il suo discorso.

«Assolutamente, caro Alfonso; nel suo genere, il meglio: un vero mostro. Capisci?»

«Proprio mi sembra inconcepibile che un maestro di eleganza come lei collezioni simili obbrobri.»

«Al contrario, mio caro, è proprio attraverso un’assidua frequentazione del Brutto, in tutte le sue forme, che sono diventato ricettivo nei confronti della Bellezza. Perché, vedi, l’artista ha bisogno di un costante ammaestramento, deve essere guidato sulla retta via, dalla quale la natura umana tenta di fuorviarlo. E quale maestro migliore del Brutto? Vorresti dirmi che è possibile scrivere sonetti perfetti senza avere mai letto le opere – nel loro genere inarrivabili – di Francesco Paris? Oh, quali delizie avrebbero scritto Dante, Petrarca e Leopardi, se solo avessero gettato lo sguardo nei suoi fulgidi abissi!»

«Lei vuol dire che il Brutto può insegnare la via della perfezione...»

«Assolutamente, mio caro. Anzi: solo il Brutto può farlo. Da tempo ormai non leggo altro se non le opere di più bieca perversione estetica; imparo, imparo pian piano, e mi elevo sempre più! Ora è un verso isolato dello Scrofoli, ora un sonetto della Bianciastri, talvolta un poemetto didascalico di Smucchi, e poi gli abominii di Fubazzi, Truzzi e Percagni! E quali tesori nasconde la Storia, per chi ha la pazienza e il coraggio di aggirarsi per certe viuzze deserte, nei vicoli a sera, e con calma aprire i mille libri innominati che giacciono in decomposizione sulle bancarelle, quei libri acquistati dai magazzini, invariabilmente destinati al macero, silenziosa umanità dannata in eterno, nel silenzio e nell’oblio!»

Si fermò per sorseggiare ancora un poco di tè e poi, notando che si stava facendo buio, si alzò e accese un lume: la stanza prese calore da una fioca lampadina da quaranta watt che ammiccava funerea alla sommità di un portalampade in coccio con la scritta Saluti da Bolzaneto.

«Quanto è bella la Bellezza; vero, potrei vivere solo cibandomi di sonetti, quadri e canzoni! Ma non posso: la mia Arte, ciò che percepisco dei sospiri degli Dei, non me lo consente. Io debbo» e qui tornò a sedersi stancamente al mio fianco, appoggiandomi una mano sul braccio «io so che debbo continuare a immergermi sempre più in basso, se voglio innalzarmi; se voglio sperare di essere degno dei Grandi. Per l’intanto, ecco il mio presente signore e padrone: Scipione Vaghi, parmigiano, sessantadue anni, ragioniere al Banco di Napoli, tre figli. Ascolta:

 

          Si può imparare

          a soffrire?

          Che grande virtù

          conquistiamo

          quando pian piano

          soffrire sappiamo

          con grande umiltà.

 

Senti le inversioni, i suoni chiocci, le false rime, il ritmo zoppicante, il controllo così precario del verso? Ah, caro Alfonso, questo libro avrà per sempre un posto nel mio cuore! Da due settimane persevero nella lettura, e ancora non ho vangato che una piccola parte di questo giardino di gramigna. Come vorrei conoscerti, Scipione!»

«È abominevole, lo riconosco.»

«Posso prestartene una copia? Io ne ho acquistate cinque, per me e gli amici più intimi.»

«Grazie, ne sarei lusingato, specie se potessi avere una sua dedica, Maestro, magari con i motivi del dono.» Che altro potevo dire?

«Ma certo, Alfonso, assolutamente. Ecco qua.»

Uscii pochi minuti dopo, con il libercolo in mano e sotto una leggera pioggia, non del tutto fastidiosa, che mi riportava alla vita.

 

 

*

 

Lo rividi la settimana successiva, un giovedì piovoso e freddo. Lo trovai immerso nella lettura dello Scrofoli, un giovane che, secondo lui, «non avrebbe potuto che peggiorare.»

«Perché, Alfonso mio, il Brutto ha una sua perfezione e partecipa del Divino; per quale ragione infatti siamo attratti dal sublime, dall’orrido, dal grottesco? È che in essi riconosciamo la mano di Zeus, un riflesso distorto delle chiome di Elena. E il Male stesso, cui l’uomo naturalmente tende, cos’altro è se non un’espressione del Brutto? Perché io e te, Alfonso» soggiunse a voce più bassa con aria di complicità «noi che siamo creature del buio e del silenzio, non dobbiamo accettare certe banali immagini del Male, come il vecchio e caro Mefistofele con l’unghia fesa al mezzo; noi sappiamo che il Male e il Brutto sono creazioni della stessa mano che forgiò il seno di Elena, fate morgane per distrarci da una perfezione che non ci compete. Ah, Prometeo, giustamente fosti condannato! Non pensare però», riprese in tono sempre più dogmatico ed eccitato, «che io sottovaluti l’impatto del Male; anzi, proprio perché sono sempre così ricettivo nei suoi confronti, mi sono trovato costretto ad approfondire la sua conoscenza. Trovo il divino più facilmente nei brufoli di Taidé che nel seno di Elena; solo quando il processo sarà compiuto» soggiunse misteriosamente «potrò infine capire la ragione... Pretenderesti forse che chi non è stato adeguatamente attrezzato dalla Natura e dall’esercizio affronti l’urto tremendo del Brutto e del Male? Rovina e distruzione, ecco cosa ne verrebbe! No, mio caro, io il Male e il Brutto li conosco, li ho sempre conosciuti, e studiandoli sono giunto alla loro intima comprensione. Anzi, ormai sono riuscito a piegarli ai miei voleri: “till words obeyed my call”, come disse Yeats. Ma ne pago lo scotto ogni istante della mia vita.»

Le ultime parole erano state aggiunte dopo una breve pausa, in un tono più blando, a mezza voce.

«Cosa intendete?»

«Intendo dire che a mia volta ne sono schiavo, e ne sono consapevole. Frequentando ogni giorno i mostri della ragione e del gusto ho acquisito una peculiare familiarità col loro tanfo; la mia pelle ne porta il marchio ormai indelebile.» Si sedette, in un atteggiamento languido che mi parve non concedere spazio a ulteriori chiarimenti; la crisi stava lentamente passando, e lui stesso tra poco avrebbe provato una forma di malcelato imbarazzo per questo sfogo.

«Ti ho mai parlato di Annibale Carelli, ormai anziano poeta padovano, autore dell’immortale Il campanile del mio paese? Ho fatto una fotocopia del testo, affinché tu vi possa meditare sopra, come un turista davanti ai forni crematori di Auschwitz. Tieni» e trasse un foglio sdrucito dalla tasca interna del suo panciotto.

 

 

*

 

«Pronto, Alfonso? Sì, devo vederti subito, è urgentissimo. Puoi fare un salto da me?» La voce era concitata come non mai.

«Problemi, Maestro?»

«Assolutamente, Alfonso, nessun problema; devo mostrarti una cosa eccezionale!» Spensi il computer con un certo rammarico e una buona dose di apprensione; se il Maestro chiedeva di me così all’improvviso certo vi erano importanti novità, ma proprio in quel momento stavo per terminare gli ultimi versi di una poesia che mi era nata in testa due giorni prima e che da allora non mi dava tregua.

Arrivai a casa sua in tre quarti d’ora; lo trovai in piedi vicino alla finestra, come suo solito, ma non appena fui annunciato si precipitò verso di me sbandierando un plico fitto di scrittura.

«Mi ha risposto, Alfonso! Ci pensi? Lui, rispondere a me!» Lo guardai con aria interrogativa; quell’uomo, che si teneva in contatto con le intelligenze più vivaci della Terra, era fuori di sé dalla gioia: chi mai poteva essere l’autore di una tale lettera? Mi passò il plico; l’intestazione, scritta in modo un po’ malfermo, recitava “Scipione Vaghi, Rag.” Sul momento non rammentai, e volsi gli occhi al Maestro.

«Ma come, Alfonso!» mi rimproverò, «Scipione Vaghi! Non ricordi l’esemplare Si può imparare a soffrire? Quattro lettere gli ho scritto, prima che si degnasse di rispondermi!»

«Ora ricordo; il ragioniere, certo. Ma... non me lo aveva citato come esempio di sozzura?» Ero interdetto, e mi sedetti.

«Appunto. Somma. Qui sta il punto, Alfonso; continui a non capire. Occorre inchinarsi di fronte alla grandezza. E quale statura possiede il buon Scipione nel razzolare fra l’immondezza più colpevole! Senti cosa scrive:

 

“Egregio Professore, mi scuso per non avere risposto ai suoi gentili missivi precedenti, ma i miei numerosi impegni con l’Accademia dei Sublimi Cavalieri di Pantelleria, di cui sono Membro Onorario, e con il Centro Culturale Artistico Nuova Europa, che si è pregiato annoverarmi fra i vincitori del Premio Mondiale di Poesia “Betanalfa”, con pubblicazione in edizione trilingue (italiano urdu swahili), grazie ai buoni aruspici del Comm. Maurilli, di cui avrà certo sentito parlare tramite la prestigiosa rivista POESIA MONDIALE CONTEMPORANEA diretta da Tullio Neottolemo, di cui sono Socio Imperituro, e che per questo le sarei grato se volesse collaborare.”

 

Ah, che sintassi! E che modestia sulla propria poesia:

 

“Certo la nostra Età, così malata alle radici, non vede di buon orecchio noi veri Poeti che sentiamo la Poesia nel Cuore! Ma però noi dobbiamo appuntare il dito sul marcio; combattere e conquistare nuovi adeptoli, perché tutti siamo poeti, in fondo! Ma noi sappiamo anche quali fatiche improbabili comporta la creazione poetica, che per lei viviamo. E che gioia per un sinciero apprezzamento, una minzione, una recensione! Laonde per cui sarei perciò grato...”

 

E qui l’amato Scipione passa a propormi dapprima una recensione del suo ultimo libro, e infine un saggio intero sulla sua poesia. Un volume di un duecento pagine almeno!»

«Ributtante» non potei fare a meno di commentare.

«Immoralmente brutto» convenne il Maestro. «Per cui il saggio è già quasi pronto. Per la precisione, avevo già iniziato a lavorarvi un mese fa, e l’avrei pubblicato comunque; ma adesso che ho lo sprone giusto, lo limerò fino a raggiungere la perfezione. Sarà il mio capolavoro!»

«Oh, no, ma perché? Non sprechi così il suo tempo! Riprenda quel lavoro su Montale di cui mi aveva parlato.»

«Come posso comprendere a fondo Montale prima di avere approfondito Vaghi? E avere studiato Carelli un po’ più a fondo? Non capisci che il Bello è nulla, se non è posto a fianco del Brutto?»

Era inutile proseguire nella discussione; era evidente che aveva meditato sull’argomento ben più di me, con fervore e basi culturali tanto più solide della mie. Ritornai a casa avvilito, accesi il computer ma senza riuscire a lavorare con la necessaria concentrazione. Era quello, la Poesia: concentrazione, dedizione, perfezionamento. Al diavolo Vaghi!

 

 

*

 

Fu solo tre mesi dopo che ebbe luogo il nostro incontro successivo. Io stavo finalmente lavorando all’ultima sezione del mio secondo libro di versi, e del suo lavoro avevo notizie vaghe e indirette: il lungo saggio Ipotesi ermeneutiche sul Canzoniere di Scipione Vaghi, una recensione a Ziguzzi, il famigerato commercialista di Vimercate autore di una raccolta di sonetti caudati, un saggio sull’uso della rima in Addolorata Monti, insegnante di Matematica in pensione, e altre cose del genere. In compenso, interrotta la collaborazione con L’Areopago, sospese le lezioni universitarie e le partecipazioni ai convegni: insomma, sviluppi preoccupanti.

Mi accolse, in silenzio, l’anziana domestica che mi condusse nello studio ed uscì richiudendo la porta. Entrai e salutai. Non si volse, ma sembrò riprendere come sempre il filo delle nostre discussioni e delle sue elucubrazioni.

«Tu mi fraintendi, Alfonso; lungi da me il liquidare il Male come una semplice questione di gusto. È l’Informe che dà i natali sia al Male che al Brutto, e l’uomo non può restare neutrale. Vedi quel quadro? Un autentico Maspretti. Quarantasei euro l’ho pagato, ma ne vale almeno quindici. Io Michelangelo lo ammiro, Maspretti lo amo: tutto qui. Non capisci, vero? Ascolta, allora. Tu sai, noi sappiamo quanto l’Arte sia difficile. Non si fa Poesia: si tende alla Poesia. L’artista vero dedicherà a questa tensione ogni sforzo, tutta la propria vita senza lesinare, anzi ben lieto di consegnare il proprio corpo alla Dea Bianca che sovrintende a noi tutti: come un amante affettuoso, egli donerà alla Musa il meglio di sé, ed ella lo ricambierà con la propria benevolenza; null’altro, e forse nemmeno quello. Capisci, Alfonso?» terminò il Maestro ormai accalorato, la fronte imperlata di sudore, il braccio appoggiato alla finestra e lo sguardo perso su un qualche punto oltre il vetro, sul viale. Crollò sulla sedia, spossato.

«Non capisco ancora la sua ossessione per il ciarpame, il suo immolare energie in onore del Brutto.» La mia voce cavernosa giungeva dalla poltrona in cui ero sprofondato; non stavo guardando il Maestro, ma cercavo di scandagliare la sua mente.

«Vedi, mio buon Alfonso, ciò che mi affascina davvero è la servitù; del Bene, del Male, non importa: siamo tutti schiavi di qualcosa, se non di qualcuno. Sì, conosco quell’espressione; tu mi vuoi parlare del Libero Arbitrio. Il Libero Arbitrio! Numi! Come se fosse possibile una libertà in astratto, come se la libertà non fosse sempre da qualcosa! Alfonso mio, noi siamo schiavi e possiamo solo scegliere quale ossessione ci dominerà. O accettare quella che già ci ha piegati. E poi» proseguì incerto dopo una pausa «come possiamo esser sicuri del vero volto della nostra Dea? Come possiamo ottenere una ragionevole certezza di essere davvero al servizio del Bello, e non schiavi del Brutto, come colui che tiene in casa una sozza amante che colma di doni fra il dileggio della gente?»

«Ma con lo studio e l’analisi oggettiva; attraverso il parere degli esperti! È la funzione della Critica, diamine!» Ero decisamente irritato, adesso. «Sto parlando di serietà! Chi intraprende con serietà la carriera di artista non può non conoscere, oggettivamente, il valore di ciò che sta facendo. Lei sa bene che lo studio assiduo...»

Non terminai la frase, perché mi avvidi di un mutamento nella sua espressione, che si era fatta triste e pensierosa.

«Sì, comprendo il tuo ottimismo. Assolutamente.» L’ultima parola era stata scandita con enfasi. «Purtroppo mi sono anche reso conto, man mano che approfondivo la conoscenza del Brutto, di quanta dedizione la Solenne Dea dell’Informe esiga dai suoi schiavi. Credi forse che il Mannini abbia penato e goduto meno, scrivendo il sonetto A se stesso, di Alfieri? Credi che la servitù di Pieri sia inferiore a quella dell’Astigiano, e che la sua corda sia meno stretta? No, ha ragione il mio buon amico Sergio Calzone, quando afferma che “è tanto faticoso per l’incolto produrre oggetti di ribrezzo, quanto per l’albatro creare bellezza”. Mi trovo in un dilemma insolubile.»

Venne a sedersi mestamente nella poltrona a fianco della mia, agitò meccanicamente la sfera di vetro che si ravvivò di neve, e si accese in silenzio un’Alfa. L’attrazione dell’abisso si stava rivelando fatale e lo stress nervoso lo aveva portato vicino al crollo. L’ultima fatica del Pieri, che aveva citato con tanta venerazione, era stata davvero troppo per la sua sensibilità, oltraggiata dall’estasi. Ciò che più mi colpiva però era come facesse sempre più fatica a distinguere il Bello dal Brutto; e non quella mobile zona di confine che turba i veri scrittori, sempre consci della sua labilità, bensì proprio i due estremi della scala letteraria: Dante e Pieri, accomunati nella divinità dell’impulso iniziale.

«Comparisse almeno la Dea, lei in persona, a donarmi un raggio del suo sorriso, allora saprei, saprei di nuovo, o per la prima volta; ma nessuna voce, giunge, nessuna...»

Il suo lamento, sussurrato a se stesso, mi giungeva quasi indistinto.

«Maestro, lei sbaglia nel credere che il vero Poeta conversi sempre con la propria Dea. Mi ha parlato di benevolenza, ma è molto meno; e allo stesso tempo molto di più.» Era la mia voce a parlare, o le mie parole giungevano da abissi mai scandagliati? Chi stava parlando con la mia voce?

«La Dea appare solo dopo anni di fatiche e tentativi di comunicare con Lei; e solo di rado ci degna del suo sorriso. A volte, è vero, si mostra al giovane pastore che si cimenta per la prima volta nei versi, ma è solo una benedizione, il fumo di un interesse che semmai sarà acceso dopo molti sacrifici alle sue chiome. Quante pagine di vera poesia hanno scritto anche i più grandi? Poche, pochissime; il resto non è che l’offerta di un sacrificio. Anche a chi sa captare il linguaggio degli Dei, ben di rado è dato intenderlo e trascriverlo.»

«Alfonso caro, ti capisco, ma sento che devo continuare la mia ricerca a qualunque costo. Capisci?» Il suo tono era implorante, quasi cercasse l’avvallo della mia innocenza.

«Ci pensi» concluse la mia voce in tono secco, e fui costretto ad alzarmi senza attendere la risposta: avevo capito, dai suoi occhi e da quel tono non mio, che la Bianca Dea stava esigendo, per scopi imperscrutabili, un tributo di lacrime da quel nobile uomo, e che in quel momento, invisibile, gli sedeva al fianco senza ascoltarlo e senza parlargli. Cosa potevo mai opporre a tale volere?  

 

Non sarei più tornato in quell’appartamento, a contemplare settimana dopo settimana il lento operare della mia Signora. Con una copia delle Odi complete di Calogero Mannini nella tasca interna dell’impermeabile, raggiunsi finalmente il buio portone d’ingresso e mi diressi risoluto verso la pioggia.

 

 

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